Tutte le molte volte che sbaglio, sono grata a chi mi concede il suo perdono; sentiamo parlare di concessione della grazia, di concessione edilizia o di concedersi un viaggio, una vacanza…
Trattasi dell’ ‘atto di permettere, di acconsentire’, una sorta di elargizione volontaria – col presupposto di una domanda – di solito fatta da un superiore (come pare attuale il Feudalesimo…) – a chi è inferiore…
Ma un diritto della persona non si concede, non può essere trattato come diritto patrimoniale, poiché è inalienabile, intrasmissibile, irrinunziabile, imprescrittibile: nello specifico parlo del diritto allo studio. Parlo del diritto di imparare e di insegnare e di poterlo fare nelle migliori condizioni possibili (e non come per gentile concessione di fondi – sic! – di un feudatario); parlo di un luogo che mi è caro, che ben conosco in tutte le sue molteplici sfaccettature: l’università.
E dopo il prof. Barbero di Torino, e troppo pochi altri, nella nostra regione ‘bussa’ la voce del prof. di Letteratura italiana, Marco Villoresi, Università di Firenze.
Dico ‘bussa’ perché le sue parole non hanno niente di aggressivo,niente di supponente, niente di accademico. Parla un cittadino che ha scelto una strada scomoda; che ha fatto ‘solo’ quello che riteneva giusto e che, per questo, mi rende orgogliosa, forte di un senso nuovo di comunità.
Non conosco di persona il prof. Villoresi, ma lo reputo un arditamente pacifico eroe, contrario ai trinceramenti e alle categorizzazioni discriminanti, testimone di parte di un disvalore di questo presente che, perciò, riesce a creare e ricostruire: verso una mondo versione/visione inclusiva, libera o ‘solo giusta’.
Riportiamo, allora, le sue due ‘lettere’ datate 16 e 26 Settembre 2021:
Lettera del 16 Settembre 2021
Cari tutti, mi permetto di rubarvi pochi minuti del vostro preziosissimo tempo per comunicarvi la mia scelta – una scelta ben più che minoritaria, verosimilmente, nell’Università italiana – di non avvalermi del lasciapassare verde.
Questo breve scritto, lo dico subito, non ha alcun intento provocatorio o propagandistico. Si tratta di una semplice testimonianza – la mia testimonianza, inevitabilmente parziale, irriducibilmente soggettiva. Che vi chiedo di accogliere, comunque, quale che sia il vostro libero pensiero in merito all’argomento, come atto di doveroso e profondo rispetto nei riguardi di tutti gli studenti e di tutti i compagni di lavoro del Dipartimento di Lettere e Filosofia e dell’intera comunità accademica.
Non entrerò troppo nel dettaglio delle motivazioni, universali o intime, che mi hanno portato a fare questa scelta. D’altronde, tutti voi avete sapienza e cultura in abbondanza per immaginarne in gran numero e varietà: di ordine politico, ideologico, giuridico, costituzionale, razionale, scientifico, sanitario, etico, psicologico e persino psichiatrico. E magari motivazioni che riguardano la stessa Università, ovvero se oggi l’Università sia ancora abitata da un disinibito e indipendente spirito critico, se viva ancora di fertili controversie o si mortifichi in uno sterile conformismo, se promuova il rischio dinamico della creatività e della complessità o prediliga la statica sicurezza del protocollo e della profilazione seriale. Infine, e soprattutto, se l’Università possa dirsi, oggi, spazio libero, aperto e inclusivo.
Ma, davvero, non ha nessuna importanza che io renda conto nello specifico di questa mia personalissima scelta. Perché è questa scelta, non ciò che l’ha motivata o che può significare, che determina l’impossibilità di iniziare, come ogni anno, il mio corso di Letteratura Italiana; è questa scelta a mettermi ipso facto in quella condizione di diversità e di precarietà che molti – comprensibilmente, per carità – non possono né vogliono sopportare.
Si tratta, in sostanza, della “scelta di scegliere” indipendentemente dalle conseguenze – permettetemi, per una volta, di aggrapparmi alle parole altrui -, quella che “investe le condizioni di possibilità di ogni eventuale scelta, a partire dalla propria. Da qui la sua forza, ma anche la sua pericolosità e il suo rischio” (Gulio Giorello, Di nessuna chiesa. La libertà del laico). Sembra un atto di patetico integralismo intellettuale a vocazione pubblica, ma è tutt’altro: è un atto psico-fisico di necessità, è la resistenza individuale, privata e obbligata di chi sa di perdere molto, se non tutto, ma intende, insieme alla sua libertà, conservare il rispetto di sé.
Dunque, sono ben consapevole di ciò che il mio eretico Non Serviam! comporta sul piano burocratico ed economico: al momento, la sospensione dal lavoro senza retribuzione; più avanti, forse, il licenziamento. E chissà che altro ancora: quando si innesca, come la storia ci insegna, la brama di discriminazione e di persecuzione non conosce limiti.
Comunque sia, sono ancor più consapevole delle conseguenze che tale scelta provoca sul piano emotivo e umano. E chi mi conosce sa bene che il dispiacere più grande sarà la perdita dell’energizzante contatto con gli studenti: quel salutare assembramento e contagio di intelligenze, di progetti e di corpi che resta la cosa più bella e importante, la cosa più vitale, del nostro mestiere.
Dal 1984, anno della mia immatricolazione, non è passato giorno che io non abbia fatto parte, in un ruolo o nell’altro, dell’Università di Firenze. Qui, nella mia città, ho potuto godere del beneficio di studiare e di lavorare sotto la guida e al fianco di grandi maestri, di formarmi come ricercatore e docente. E, soprattutto, come uomo. Però, davvero non ho intenzione, nel contesto, nelle forme e nei toni con cui oggi viene richiesto, di esibire il lasciapassare verde per insegnare, per andare in biblioteca, per entrare nel mio studio, per incontrare gli studenti, i laureandi, i dottorandi… peraltro avendo anche il sacerdotale ufficio di interrogare, controllare e allontanare gli eventuali renitenti all’osservanza. No, non ho intenzione di godere di questo inopinato ‘privilegio coatto’ che, diversamente da quanto avviene in tutte le democrazie d’Europa, il governo del nostro paese (e l’Università) vuole concedere, bontà sua, ai docenti, agli amministrativi e agli studenti ben codificati e, sempre e ovunque, scansionabili. Per quanto tempo – mesi, anni, in eterno? -, non si sa.
Neanche, si badi, ho intenzione di infrangere la legge – almeno per ora, mi pare che il diritto non preveda né punisca gli psicoreati. Da libero cittadino italiano, dunque, da membro della comunità universitaria, scelgo di esercitare una civile protesta che si concretizza nel rifiuto del lasciapassare verde. Ma accetto socraticamente – consentitemi il conforto dell’autoironia – ciò che il governo del nostro paese (e l’Università) ha deciso nei riguardi di chi non esibisce quotidianamente la sua prona adesione al sempre più pervasivo e abusivo controllo biopolitico, alle limitazioni di diritti fondamentali della persona e allo stato di emergenza permanente. Accetto, sì, riservandomi, tuttavia, la libertà di pensare e definire tutto questo un abominio. Un abominio che, come sappiamo, presto toccherà in sorte a tutti i lavoratori italiani.
Non ho banda, sono solo, direbbe il Poeta: non appartengo a nessuna parrocchia accademica, non ho mai avuto tessere di partito e, sinceramente, ho in uggia appelli, petizioni e prese di posizioni verbali senza ricadute nella realtà effettuale. Di conseguenza, della mia scelta mi assumo in toto e concretamente la responsabilità. Sarà senz’altro incompresa e disprezzata dai più – ben percepisco lo spirito del tempo, dunque anche di questo sono perfettamente consapevole. Ma, credetemi, la faccio senza imbarazzo e in pace con me stesso. È stata ben meditata, è stata presa in piena autonomia e, inutile dirlo, non ha nessuna velleità di risultare esemplare. È solo la mia scelta, che sin dai prossimi giorni mi destina, se non alla macchia, ad un volontario confino, In partibus infidelium. Così, in attesa di tempi migliori, semmai ne capiteranno, e di qualche buona novella, proverò l’esperienza di color che son sospesi… dal lavoro, dai luoghi della cultura e della socialità, e da alcuni servizi pubblici essenziali.
E allora, visto che questa è la stagione che ci tocca attraversare, non mi resta che augurare schiettamente a tutti voi tanta salute e altrettanta serenità. Un grande abbraccio.
Marco Villoresi
Lettera del 26 Settembre 2021
Carissimi.
Rivolgo le seguenti riflessioni a tutti i liberi cittadini che hanno a cuore la salute della democrazia e della società italiana, ma scrivo direttamente a voi, compagni e colleghi della comunità universitaria, che state lottando, con grande impegno e lucida intelligenza, contro il cosiddetto Green Pass. Sento il bisogno di scrivervi per dimostrare pubblicamente il mio totale apprezzamento per quello che state facendo. In particolare, per la vostra volontà di denuncia delle pericolose derive che investono i campi del diritto e dell’etica, della scienza e della comunicazione, condizionando sempre più pesantemente il nostro vivere civile. Tutto questo si concretizza nel vostro NO, che faccio mio, che facciamo nostro, così limpido e così genuino, il NO alla discriminazione tra cittadini, alle limitazioni delle libertà dell’individuo, alla riduzione della nostra umanità ad un mero codice a barre.
Molti di voi, credo, sanno qual è stata la mia scelta. Come avevo annunciato in una lettera del 16 settembre alla Rettrice dell’Università di Firenze, poi finita sui giornali senza che io muovessi un dito e a mia insaputa – È la stampa, bellezza! -, mi sono rifiutato di esibire il lasciapassare. Il 22 settembre, giorno d’inizio del mio corso di Letteratura Italiana, la mia scelta è stata burocraticamente registrata. Le conseguenze le conoscete tutti: sono a casa senza stipendio. Dura Lex, sed Lex. Che, difatti, serenamente accetto. E altrettanto serenamente, condividendo il mio stesso destino, la sta accettando il collega Stefano Leoni, vicedirettore del Conservatorio di Torino.
Sembrerà paradossale ai più, ma questa scelta non la sto vivendo – permettetemi di rifarmi ad un’autorevole definizione – da cittadino di serie B. Tutt’altro, direi. Sono cose note, del resto: il passaggio dalla parola all’atto – quando l’atto è ben meditato e consapevole – ha sempre una funzione liberatoria. In questo momento, io mi sento cittadino più di prima. Un libero cittadino italiano che accetta le conseguenze di una sua libera scelta. D’altronde, come ho risposto ai molti – ai sorprendentemente molti – che mi hanno voluto mostrare vicinanza e stima, ho solo scritto quello che pensavo. E ho solo fatto quello che ritenevo necessario. Tutto qui.
Ma non è certo per parlarvi di me e di quello che sto vivendo, che vi scrivo. Vi scrivo, invece, per provare ad immaginare – provando a immaginarlo insieme a voi – cosa potrebbe essere fatto di pratico e di incisivo nelle giornate che ci separano dal 15 ottobre. Allorquando, è noto, l’utilizzo del lasciapassare – un unicum fra le democrazie d’Europa, ricordiamolo sempre – verrà esteso a tutti gli ambiti lavorativi. Una data che ritroveremo senz’altro nei libri di storia. Ma dubito, come tutti voi, che sarà una data di cui il nostro paese potrà andar fiero.
Vengo al dunque, partendo da una cosa che penso di aver capito di questo reo tempo che ci tocca vivere. E che forse voi stessi, come e meglio di me, avrete con grande pena percepito, giorno dopo giorno, sempre più distintamente. Molti liberi cittadini si sentono soli e smarriti. E, soprattutto, molti lavoratori si sentono traditi. Traditi dalle istituzioni, dai partiti, dai sindacati. Solitudine, smarrimento, sensazione di esser stati traditi. Credo siano sentimenti diffusi e trasversali. Non si tratta di giovani o anziani, di persone appartenenti a specifiche categorie sociali e culturali, a quello o quell’altro schieramento politico. Né, tantomeno, si tratta semplicemente di chi, oggi come ieri, è più o meno favorevole a certe restrizioni o imposizioni, o a certe scelte sanitarie anziché altre.
Ebbene, che cosa possiamo fare per combattere questo generale senso di disagio e di asfissia che colpisce molti italiani, anzi che cosa dobbiamo necessariamente fare noi che lavoriamo nell’Università? Comincerei proprio dall’Università, dalla nostra realtà professionale. Dicendo che il civile, pacifico e umanissimo rifiuto del lasciapassare deve andare di pari passo con la serena pretesa di vivere e di lavorare in un’Università libera, aperta, inclusiva. Questo significa cambiare molti dei paradigmi oggi in vigore, alcuni dei quali surrettiziamente consolidati in tempo di pandemia. Dobbiamo far presente con chiarezza ciò che NON vogliamo. Non vogliamo l’Università asservita al potere politico-economico, l’Università dei burocrati e dei lacchè, dei tornelli e dei QR Code, del pensiero unico e del sapere profilato. L’Università deve tornare ad essere, in ogni disciplina, il campo di ricerca permanente di quelle verità che non possono mai coincidere con la Verità. Sono le sole verità, lo sappiamo bene, che il libero pensiero scientifico può accettare: le verità soggette a costante revisione, sempre criticabili e fallibili, sempre reversibili e falsificabili. Questo credo oggi sia davvero indispensabile, per ritrovare il gusto di una sana dialettica senza censure e mettere un argine a quella spudorata trasformazione della scienza in scientismo a cui stiamo assistendo nell’ultimo anno e mezzo. Lo dobbiamo, innanzi tutto, ai nostri studenti. Che potranno contare anche e soprattutto su questo costante esercizio critico per restare sempre dei liberi cittadini, senza mai trasformarsi in docili sudditi.
In questi giorni che ci separano dal 15 ottobre, tuttavia, occorrerà trovare concretamente il modo per mostrare che noi docenti siamo vicini non solo ai nostri studenti – e, in particolare, a quelli non osservanti, a cui viene impedito il libero accesso alle lezioni, alle biblioteche, ai laboratori. Noi dovremo mostrare di essere solidali e vicini anche a quei cittadini soli, smarriti, traditi di cui parlavo prima, smentendo una volta di più coloro che hanno volgarmente insinuato che ci muoviamo soltanto per spirito di corporazione.
Non c’è bisogno che ve lo dica: io posso liberamente esporre la mia idea di Università, come ho fatto, ma non ho nessuna autorevolezza, né tantomeno diritto di suggerire che cosa fare alla singola persona per opporsi alla vergognosa estensione del lasciapassare. Anche perché, oltre ad essere scelte molto intime, sono scelte che possono mettere in gioco aspetti materici della vita di tutti i giorni. Lo avrete capito, però, e certo non posso negare che alle libere scelte individuali – alle scelte fatte in scienza e coscienza che precipitano nel reale – riconosco una forza e un credito speciale. E persino, come dicevo poc’anzi, un valore terapeutico.
Il vostro gruppo, che è il mio gruppo, è frutto di queste scelte individuali. Ora sappiamo che siamo tutti dalla stessa parte, la parte che ci sembra giusta. E non importa se siamo pochi o se siamo tanti. Avendo ben chiaro il comune obiettivo, ognuno di noi nei prossimi giorni continuerà a fare liberamente quello che riterrà opportuno. Mi permetto, però, di fare una considerazione elementare, sempre rispettando le idee, le sensibilità e le esigenze di ciascuno. Il 15 ottobre, ne converrete, è una linea di confine: se non ci sarà un forte segnale di civile e serena resistenza, dal giorno dopo le discussioni sul lasciapassare saranno per davvero solo sterili discussioni accademiche.
Nessuno può essere chiamato a fare ciò che liberamente non vuole fare. E nessuno meglio di noi lo sa, dato che è anche per questo che stiamo lottando. Credo, però, a una cosa molto semplice: se alcuni di voi, ovvero se alcuni dei professori firmatari dell’appello contro il cosiddetto Green Pass, per qualche giorno evitassero di esibire il lasciapassare, ecco, io credo che sarebbe il modo migliore per mettere in luce una forza pacifica e pronta a lavorare per una società più libera, informata e consapevole. D’altronde, sulla base delle notizie che stanno circolando, non è difficile immaginare che il 15 ottobre quel gesto di civile e trasparente disobbedienza lo faranno operai, artigiani, impiegati e persino poliziotti. Non importa quanti, sarà quel che sarà. Ma io voglio anche immaginare che a fianco di questi cittadini e lavoratori ci saranno dei professori universitari. E il solo immaginarlo, credetemi, mi dà gioia e salute.
Con stima e amicizia, Marco Villoresi.
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