«Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello […] non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso» (Levitico, 19, 17-18)
Raramente le cose corrispondono alle parole. L’odio, infatti, esiste. Perché l’odio non è per nulla un errore o un incuello che invece ci tidente di percorso. Al contrario, è in noi e attorno a noi. Avanza con la calma implacabile di uno schiacciasassi, senza curarsi delle nostre obiezioni che, anzi, lo rafforzano, perché l’odio è impermeabile sia alla ragione che all’esperienza e si nutre della propria insaziabile collera.
L’acido cianidrico a 200 mg/m³ uccide una persona in circa 10 minuti. Da cinque a sette kg di Zyklon B venivano fatti cadere nella camera della morte attraverso un’apertura nel soffitto per uccidere da 1.000 a 2.000 persone in pochi minuti.
A questo si riferivano i cartelli che ieri per le centralissime vie di Lucca hanno colpito l’attenzione di alcuni cittadini. Siamo andati a verificare perché non volevamo credere alle foto che ci erano state inviate; speravamo in un fotomontaggio, speravamo che non rappresentassero la realtà della nostra città. Invece c’erano eccome, ed abbiamo appreso dalla Questura, dove ci siamo recati immediatamente per sporgere denuncia, che ce ne erano altri in giro per la città. Minacce di morte, di questo si tratta. E nemmeno velate. La gente camminava per le vie del centro guardando le vetrine: leggevano il cartello e tiravano dritto, senza una men che minima reazione. Siamo rimasti per alcuni minuti increduli davanti a quel piccolo cartello, che tuttavia portava con sé un’enorme minaccia, e non solo per i “no-Vax” a cui era rivolto, ma per tutti, per la società civile. Perché qualcuno abbia scritto quel cartello non è complesso capirlo: si tratta di un processo di istigazione all’odio che è iniziato ormai da molti mesi. La cosa ancor più preoccupante è la scarsa reazione delle persone, l’ignorare la gravità, come se ormai un certo linguaggio fosse entrato nel frame narrativo della nostra società: uno scenario davvero preoccupante a cui dobbiamo in ogni modo porre un freno.
Lo scorso 31 ottobre, a Novara, alcuni cittadini sfilano per la città, durante una manifestazione contro il green pass, vestiti come gli ebrei deportati nei campi di concentramento. Il Ministro della Salute, Roberto Speranza, intervistato a “In mezz’ora in più”, non ha usato mezzi termini: “Quello che ho visto a Novara è fuori dalla grazia di Dio“; anche il Senatore Pd Marcucci, toscano e lucchese, non indugia a definire i manifestanti quali “folli scriteriati”.
Viene da domandarsi se, e quali parole, il Ministro ed il Senatore troveranno per commentare i cartelli appesi per le strade della città di Lucca.
Quello che invece ci teniamo a fare noi, rispetto a questo grave atto di incitamento all’odio, è cercare di capire, approfondire e creare consapevolezza. Comprendere i fattori alla base di un fenomeno è indispensabile per poter intraprendere qualsiasi azione volta a contrastarlo in modo efficace.
L’hate speech, o incitamento all’odio, è una modalità di comunicazione violenta, a sfondo razziale, etnico e religioso, posta in essere dai cosiddetti haters per fare proseliti, anche a scopo politico, ed indurli a fare gruppo contro ‘il nemico comune’. Le discriminazioni sociali, oltre a tutte le possibili motivazioni storiche ed economiche, sono sostanzialmente create e incentivate attraverso parole, immagini, simboli e atti comunicativi che rinforzano posizioni di subordinazione e diffondono pregiudizi e stereotipi.
Il linguaggio, infatti, ha la fondamentale funzione di procurare nomi che permettono di catalogare la realtà, fornendo indispensabili mappe di senso per orientarsi nel mondo e soprattutto nelle relazioni. I linguaggi, al tempo stesso, hanno un’imponente carica normativa: veicolano ideologie, definiscono il ventaglio di possibilità che hanno gli esseri umani di stare al mondo. Certi nomi, di contro, definiscono il non-essere di alcuni: è il caso degli epiteti denigratori che promulgano disprezzo, odio, de-umanizzazione di individui, semplicemente sulla base dell’appartenenza ad una determinata categoria, cosa che evidentemente sta avvenendo ormai da mesi nei confronti dell’artificiosa categoria dei “no-Vax”. L’appartenenza rappresenta fin da sempre un fondamentale bisogno umano, che vede nell’esistenza del proprio gruppo necessariamente quella di un altro. L’appartenenza ad un gruppo, infatti, comporta una divisione psicologica tra in-group e out-group, tra dentro e fuori, tra noi e loro.
Il linguaggio d’odio causa discriminazione, producendo cambiamenti di credenze e comportamenti, producendo, dunque, degli effetti sulla società stessa. Negli ultimi mesi, infatti, abbiamo assistito ad un progressivo aumento di questo tipo di linguaggio, per bocca proprio di coloro che avrebbero dovuto impedire che ciò avvenisse. Ministri, parlamentari, senatori, medici, giornalisti, presentatori, non si sono risparmiati, ed hanno prodotto un vastissimo repertorio di questo tipo di linguaggio: “sorci” (Burioni, medico virologo), “cretini e beoti” (Bassetti, medico infettivologo), “gentaglia” e “disertori” (Di Piazza, Sindaco di Trieste), “ignoranti e in malafede” (Zingaretti, Presidente Regione Lazio), “devono ridursi a poltiglia verde” (Selvaggia Lucarelli, giornalista), “mi divertirei a vederli morire come mosche mentre mangio pop-corn” (Andrea Scanzi, giornalista) “riders, sputate nel cibo che consegnate ai no-vax” (Parenzo, giornalista), per non parlare degli Amministratori pasdaran da De Luca al più vicino Del Ghingaro che invocano l’isolamento per i non vaccinati, imputando loro la colpa del dilagare dell’epidemia. Di questi giorni, anche le parole gravissime del dott. Miozzo, per un anno a capo del CTS, il quale invoca addirittura la condanna penale e il carcere per chi non si vaccina… e molti altri ancora, ovviamente, tutti concordi che i no-vax siano fascisti ed ignoranti.
Il linguaggio d’odio separa prima, e disumanizza poi, le vittime, toglie loro la dignità di esseri umani e le relega in un universo sub-umano, pronte così a diventare bersagli.
Per marchiare le future vittime si usano termini tratti dal mondo animale perché non sono più uomini (scarafaggi, topi, vipere, cani rognosi, ecc.) e vengono usate anche metafore che fanno riferimento alla malattia: queste persone diventano parassiti, bacilli o il cancro che infesta, perciò la loro eliminazione costituisce un’operazione lecita e auspicabile (si estirpa un cancro, si guarisce la società dalla malattia, si stanano i ratti ecc).
Ancora oggi, giornali, televisione e politica, esercitano una forte influenza usando semplicemente la parola, ed il linguaggio da loro usato è uno strumento che plasma i sentimenti e che agisce sulla percezione dell’opinione pubblica e dell’immaginario collettivo, crea timori e insicurezze, alimenta stereotipi e pregiudizi che preparano a rendere indifferenti al destino degli altri. In questa progressione, il punto di non ritorno si raggiunge quando chi odia si sente (anche solo simbolicamente) minacciato dal diverso da sé e chi è odiato ormai ha subito una svalutazione sistematica; l’odio viene così razionalizzato e l’atto aggressivo appare come una scelta razionale e appropriata. A quel punto, l’annientamento dell’altro, ridotto a capro espiatorio, è solo questione di tempo.
Quei cartelli rappresentano proprio questo passaggio: dalla discriminazione siamo oramai passati alla disumanizzazione e alla minaccia.
Se facciamo un passo indietro, notiamo che stereotipi e pregiudizi nei confronti di un gruppo si inseriscono in un insieme più ampio che chiamiamo “narrazione”. La narrazione è definita come racconto di fatti, reali o immaginari, scelti e presentati in una sequenza coerente; in altri termini, corrisponde all’azione di “raccontare” una storia ed è composta da una serie di caratteristiche (contesto, personaggi, situazioni ecc.) e dai significati che le attribuiamo (politici, economici, sociali o di altra natura). Cambiando e combinando questi elementi, possiamo ottenere molte e diverse modalità per raccontare gli stessi fatti. Si tratta di uno strumento potente, che può essere utilizzato anche in chiave negativa per mettere un gruppo di persone contro un altro, una maggioranza contro una minoranza, per alimentare leggende e pettegolezzi, per istigare l’odio e la violenza, per stigmatizzare. Per comprenderne la forza, basti pensare che in caso di situazioni di conflitto o tensione sociale, “l’immagine del nemico” (costruita attraverso una narrazione ad hoc) è spesso utilizzata per rafforzare la coesione nazionale, soffocare le controversie e/o permettere il mantenimento dello status quo.
Nel nostro tempo è facilissimo smerciare l’odio. Esiste un’industria, per questo. Esistono delle centrali dell’odio, come ad esempio il web, in cui la diffusione di certi sentimenti, di certi argomenti, di certi nemici, avviene su scala planetaria. Avviene seguendo una sorta di invisibile protocollo (o forse ben visibile, a pensarci) in base al quale si devono dire certe cose, attaccare alcuni argomenti, alcune idee, alcuni valori, contrapporsi ad essi senza la misura delle parole.
Quello che sta accadendo alla nostra società, dunque, è un’enorme campagna di odio nei confronti di una parte di cittadini che vorrebbero semplicemente essere e tornare a godere dei propri diritti naturali, primo fra tutti quello di decidere se sottoporsi o meno ad un trattamento sanitario come previsto dalla Costituzione del nostro Paese: una campagna di discriminazione ed odio, il cui unico scopo è proprio quello di mantenere con maggiore facilità il controllo, in una situazione decisamente fuori controllo.
Non cadremo nel vostro tranello, e non risponderemo al vostro odio con altro odio. Ancora una volta, come avviene da mesi, vi invitiamo solo ad ascoltare per capire, a non giudicare ed a restare uniti, noi abbiamo ancora fiducia che si possa tornare indietro.
Nelson Mandela affermava:
«Nessuno nasce odiando qualcun altro per il colore della pelle, il suo ambiente sociale o la sua religione. Le persone odiano perché hanno imparato a odiare, e se possono imparare a odiare possono anche imparare ad amare, perché l’amore arriva in modo più naturale nel cuore umano che il suo opposto».
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